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La farsa del negoziato sulla Grecia

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Scrive Fabrizio Goria su Panorama, in un articolo in cui fa il punto sui negoziati tra Grecia e ‘ex troika’:

Delle due l’una: o si adottano riforme strutturali in modo serio, con il rischio di perdere il consenso politico, o Tsipras e Varoufakis dovranno fare i conti con le casse dell’erario, sempre più risicate

Il problema insomma è quello di sempre: le riforme strutturali in Grecia sono necessarie, se non altro per mantenere attive le linee di credito che servono per sopravvivere. Ma più in generale, l’aggiustamento per i greci, che come si ricorda spesso, ‘per anni hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità’, a una condizione economica più consona alle loro possibilità, è inevitabile. Che sia attraverso uscita dall’euro (con conseguente default traumatico) o attraverso le misure di austerità, la disintossicazione dalle passate sbronze di spesa pubblica indiscriminata è inevitabile e dolorosa.

Ciò premesso, bisognerebbe prendere atto che, in Grecia, le riforme strutturali non sono attuabili, non nel breve termine richiesto dalle regole fiscali prescritte dai trattati europei. Non lo sono per ragioni complesse: non è possibile riformare a tavolino o in pochi anni un tessuto sociale organizzato storicamente sulla distribuzione politica di rendite, dove financo le abitudini e i comportamenti individuali più personali sono calibrati sulla logica del privilegio come ‘diritto acquisito’. Lo vediamo bene in Italia, e in Grecia, da quel che si capisce, è molto peggio. Realisticamente, la Grecia è dunque irriformabile, nel breve termine, full stop. Sostenere il contrario è un po’ vivere di teorie astratte. Qualsiasi tentativo di riforma incisiva in quel paese – come nel nostro, d’altronde – se non affiancato da misure di sostegno sociale per dare sollievo alle persone più duramente colpite dalla sua applicazione (a meno che non si decida di ammazzarli o rinchiuderli, in quanto beneficiari di passati sprechi), innesca un processo di aggregazione di consenso democratico intorno a forze politiche populiste e conservative, che tendono a fermare le riforme stesse e mantenere lo status quo.

L’insistenza sulla necessità di riforme credibili, capaci di attivare la ‘mano invisibile’ dello sviluppo di mercato, e creare dunque i presupposti per la crescita, alla luce di questa considerazione, appare un esercizio giornalistico e accademico, (o politico-burocratico, nella prospettiva della troika) piuttosto autoreferenziale. D’altronde, ci sarebbe di che scommettere che nessun liberale di coscienza, o anche il presidente dell’eurogruppo Dijsselbloem, o il ministro delle finanze tedesco Schäuble, sia davvero in cuor suo convinto che in Grecia si possa avviare a comando un processo riformatore davvero efficace, sostenuto dal consenso popolare.

Realisticamente, per quanto possano apparire incredibili, le uniche ‘soluzioni’ per la vicenda greca sono due: l’uscita del paese dall’euro, o il suo ‘assorbimento’ in un soggetto politico più grande, europeo. Per questa ragione, la vera questione sollevata dalla Grecia non è la credibilità della Grecia (che non c’è mai stata su, i mercati si sono calmati per altre ragioni – Bce, cessione del debito a istituzioni – non grazie alle riforme imposte dalla troika) ma la credibilità dei trattati europei. Che sono credibili in quanto presupposto di un processo di integrazione politica europea, e viceversa non lo sono come sistema di regole con l’assurdo obiettivo di simulare a tempo indeterminato un’unione fiscale tra stati sovrani, in un quadro di situazioni e interessi nazionali, economici, politici, e perfino geopolitici contrastanti, e talvolta contrapposti.

La grande farsa della vicenda greca non è il comportamento di un leader populista – oggetto di facili derisioni dagli osservatori liberali – che legittimamente tratta e difende le sue posizioni, per quanto assurde, ma il prendere sul serio il teatrino di un negoziato in cui per evitare di toccare il problema vero – l’integrazione, appunto, politica e fiscale europea, con relative cessioni di sovranità e condivisioni di responsabilità, oppure la presa d’atto formale che tale integrazione non è perseguibile – e continuare a parlare di ‘riforme strutturali’ in un piccolo paese, le quali non sono, in questo contesto, realisticamente attuabili.

@leopoldopapi

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marzo 11, 2015 at 1:06 PM

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La Grecia, l’euro, la legge ferrea del populismo

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Dentro o fuori dall’euro, la Grecia non sembra avere molte opportunità di riprendersi dalla crisi in cui si trova. L’uscita dall’euro sarebbe una catastrofe per i greci, che già in questi giorni stanno correndo a mettere in salvo i loro risparmi, temendo di ritrovarseli convertiti in inutili dracme. Il sistema finanziario del paese collasserebbe, e così la sua credibilità sui mercati internazionali. Non avrebbe modo di finanziarsi all’estero, e sarebbe incapace di sopravvivere grazie alle sue attività produttive, che sono assai fragili e che subirebbero probabilmente il colpo di grazia. Forse la Grecia ripartirebbe dopo qualche anno, ma pagando costi sociali insostenibili.

Purtroppo un Paese non è un’impresa, che può fallire ed essere sostituita da altre efficienti. Il meccanismo di ‘distruzione creativa’ di schumpeteriana memoria si inceppa a causa dell’interferenza della politica e dei capricci del voto democratico: la distruzione di inefficienze, necessaria per una ripartenza ‘spontanea’ dell’economia greca, basata su mercato e concorrenza – che, come insegnano gli economisti liberali, sono forse gli unici processi che danno prospettive solide di crescita e benessere sul lungo termine – nel breve termine crea un disagio tale da incentivare i consensi alle forze più populiste.

In Grecia ha vinto Syriza, ma potrebbero ottenere il governo forze ancora più radicali. Le quali, invece di creare il contesto per la ripresa consegnerebbero il paese a una condizione di caos e povertà strutturale, a furia di programmi statalisti ‘chavisti’ o ‘nazionalisti’ di redistribuzione, a seconda del segno politico. E’ bene ricordare che il prossimo sulla lista d’attesa dei tabelloni elettorali greci è il partito nazista Alba Dorata, pronto a subentrare casomai dovesse fallire Tsipras. Ed è facile immaginare che le sue ricette economiche non saranno poi troppo diverse dalle minestre di Syriza, di Marine Le Pen, del M5s o del Podemos spagnolo.

D’altronde, le riforme imposte dalla Troika a garanzia dei prestiti, hanno avuto un simile esito politico. Anche in questo caso, i saggi precetti liberali che le hanno ispirate – create le condizioni per la concorrenza, la tutela dei diritti e della proprietà privata, la solidità istituzionale, e vedrete che rinasceranno nuove attività economiche, ricchezza e prosperità verranno – si sono scontrati con la dura realtà del voto. E’ possibile che qualche greco apprezzi le virtù di un periodo di ‘austerity’ per liberarsi di abitudini culturali votate allo spreco e ai corporativismi, ma è probabile che questa consapevolezza diventi sempre meno accettabile per tutti i cittadini con il dispiegarsi degli effetti di queste ricette, subiti a livello individuale e familiare, in termini di contrazione del reddito, perdita di benefici e privilegi. D’altronde, si dice, “il debito non l’hanno fatto i greci”, ma la loro classe politica.

La legge ferrea della democrazia, per cui i politici al governo possono prendere decisioni a loro beneficio personale (o di gruppi organizzati a cui fanno riferimento) esternalizzando i costi sulla collettività ignara, all’inverso può trasformarsi in una sorta di legge ferrea del populismo: se gli effetti immediati di riforme decise da un gruppo organizzato volte all’efficienza, i cui benefici non ci sono ancora, e sono attesi anzi solo in un futuro indeterminato (è impossibile sapere cosa ci riserverà lo sviluppo del mercato), diventano troppo pesanti sulla vita dell’individuo o degli elettori, questi voteranno per un gruppo politico che promette con proclami roboanti – leggi appunto, populisti – la fine rapida e sicura delle loro sofferenze.

Dunque, per la Grecia c’è, sembra, ben poco da fare. Tutte i percorsi per ritrovare la prosperità economica implicano lamenti e stridore di denti: sia quella del ‘Grexit’ che quella della Troika. Non è colpa né della Troika né dell’euro né del liberismo, né di nessuno, ma del fatto che la disintossicazione di un’economia devastata da decenni di sbronze di spesa pubblica gestita per organizzare consenso politico senza produrre nulla è un processo doloroso. Il cui esito non è affatto scontato: può darsi che l’economia riparta, ma anche che muoia,  si avvii verso l’inaridimento definitivo. Ma in tutti i casi, le misure necessarie per la ripartenza tendono a essere ostacolate dalle sirene della politica, e dall’intervento, più o meno inevitabile, della legge del populismo.

Una ‘terza via’ per la Grecia in fondo c’è, ed è quella che, a ben guardare, Tsipras e il suo gagliardo economista Varoufakis sembrano avviati a percorrere  (quanto deliberatamente, quanto per spirito folle d’azzardo, è difficile dirlo). E’ quella dell’integrazione politica europea, mutualizzando debiti e scaricando sugli altri paesi dell’unione monetaria i costi dei propri sprechi passati. Qui sta, forse, la posta in gioco del ‘salvataggio’ della Grecia di Tsipras: innescherebbe un processo di condivisione del debito, il che comporterebbe garanzie comuni, per gestire le quali inevitabilmente si arriverebbe a una riduzione delle sovranità nazionali (tedesca, francese, italiana ecc.) in favore di una maggior sovranità europea. L’alternativa, per forza di cose, rischia di essere la dissoluzione dell’euro e dell’Unione europea, con tutti i suoi complicati meccanismi per ‘simulare’ un’unione fiscale e politica, pur salvaguardando le rispettive sovranità.

La Grecia in un’Europa politicamente integrata rimarrebbe quello che è, un’area depressa e arretrata, forse condannata a tirare a campare dell’assistenzialismo di una comunità politica più grande e ricca. Ci sarebbero le lamentele di chi paga, e le lamentele di chi non riceve abbastanza ma tutto sommato sarebbe una tranquilla routine, senza scossoni. Per noi italiani sarebbe una situazione familiare. D’altronde non si è mai sentito parlare di una crisi del debito sovrano, che so, campano.

@leopoldopapi

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febbraio 10, 2015 at 5:43 PM

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Tsipras, o di un problema di sovranità europea

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I problemi della Grecia, così come quelli degli altri Paesi fortemente indebitati e con gravi carenze in termini di competitività della loro economia, non dipendono dall’austerity e dai sacrifici imposti dalla Troika. Certamente le condizioni a cui è stata subordinata l’assistenza finanziaria delle istituzioni europee e dal Fmi sono state durissime per i cittadini greci. Ma il problema di fondo di quel paese è sempre lo stesso da ben prima della crisi e quello rimane: l’assenza di attività produttive capaci di rendere il paese competitivo, di generare valore aggiunto e dunque ricchezza e benessere per i cittadini greci. Dentro o fuori dall’euro, se non si forma in Grecia un tessuto produttivo efficiente, non ci sarà futuro, se non di indigenza. E una ripartenza è un processo necessariamente spontaneo, non drogato da forme di sostegno politico, passa inevitabilmente per la riduzione di sprechi e l’esposizione alla ‘selezione naturale’ del mercato, a prescindere da ‘diktat’ esterni. E’ probabile che Tsipras ne sia ben cosciente, al di là degli slogan ideologici del suo partito, e che finirà per venir meno alle promesse fatte, adottando piani di liberalizzazione e di deregolamentazione del sistema economico che di certo non sono di sinistra.

Premesso questo, il voto in Grecia ha messo di nuovo in evidenza il ‘problema dei problemi’ generato dall’euro: la cessione di sovranità politica che l’area monetaria impone, per un verso o per un altro. Non bisognerebbe mai dimenticare che i ‘piani di salvataggio’ e i regimi di ‘austerity’ imposti alla Grecia a partire dal 2010 non servivano per fare un favore a quel paese, ma per disinnescare una possibile escalation europea di crisi dei debiti sovrani, capace di far saltare l’unione monetaria. Dopotutto, è per questo che il destino di un piccolo paese, dal Pil analogo a quello del Veneto e dell’Emilia Romagna, è divenuto così cruciale per l’Europa e il mondo intero. Dunque, non si sfugge al dilemma della sovranità: o a cederla sono i paesi in difficoltà, come la Grecia, che si sottomettono ai piani di riforma per ricevere aiuti, oppure sono i paesi forti che devono accettare di assumersi il rischio politico di garantire di fronte ai mercati internazionali per i debiti pubblici dei loro partner meno competitivi e più ‘spreconi’. Il giorno che la Germania garantirà per il debito greco, non vi saranno problemi più di quanti ve ne siano per la credibilità finanziaria della Campania.

E’ vero: ci sono i trattati di Maastricht, e i paesi che li hanno sottoscritti si sono impegnati a far ‘convergere’ le loro economie in modo che si simulassero un’area fiscale comune, pur senza un bilancio comune e un governo centrale. Dunque, per i paesi che non li rispettano, scattano le dovute sanzioni. Ma continuare a sostenere questo punto di vista appare un po’ un esercizio scolastico vuoto, scollegato dalla realtà. I trattati giuridici internazionali risentono di un noto paradosso: tendono ad avere valore solo finché non vengono messi alla prova da esigenze politiche. Al paradosso non sono sfuggiti gli impegni comunitari: dal momento in cui non sono stati rispettati da qualcuno, per non far saltare l’euro si è dovuto ricorrere a successioni di misure “straordinarie”. Si è entrati in una spirale di salvataggi, piani di riforma, fondi salva stati, ‘whatever it takes’ a furia di scontri brutali da ultimo un quantitative easing condizionato politicamente sull’aspetto cruciale della mutualizzazione dei rischi sovrani.  Tutti strumenti politici frutto di negoziati di politica estera brutali, in cui le parti in causa – gli stati Ue – intervengono valutando niente altro che costi e benefici dell’accordo rispetto ai rispettivi elettori e contribuenti.

Alla luce del voto ellenico, i patti con la Troika’ – riforme in cambio di assistenza finanziaria – si sono rivelati una linea politica controproducente, capace al massimo di comprare tempo per l’unione monetaria, ma che ha generato un voto di contestazione e l’ascesa al governo una forza politica con cui ora sarà molto più difficile dialogare. D’altronde poteva succedere diversamente? Qualcuno si aspettava davvero che i greci si trasformassero in pochi anni in liberali cultori di Mises e Hayek? Oggi i liberali denunciano il populismo, ma si possono accontentare che in Grecia ha vinto un (almeno così pare) pragmatico. Se fallisce lui, potrebbe arrivare di molto peggio. In ogni caso, il nocciolo della questione è che Ue e la Bce possono imporre a un governo determinate scelte, ma non hanno modo di determinare il voto dei suoi elettori. Ecco di nuovo il problema della sovranità. Le Istituzioni europee non ne hanno: e finché non ne avranno poco potranno fare contro le decisioni politiche dei paesi membri.

Tsipras, a prescindere dalla validità delle sue ricette politiche ed economiche, costringe i partner europei, e in primo luogo la Germania, a prendere una posizione politica esplicita sul problema della cessione di sovranità. Lo si è visto fin dall’incontro di ieri, tra il presidente dell’eurogruppo Djsselbloem e il ministro dell’economa greco Yanis Varoufakis. 

Il problema è: ha davvero forza negoziale? C’è chi sostiene che oggi l’uscita della Grecia dall’euro – che è, in fondo, la sua unica vera arma negoziale – non comprometterebbe la tenuta dell’unione monetaria. E tuttavia, sarebbe di certo un precedente estremamente importante, di cui è difficile capire la portata, forse capace di mettere in gioco la credibilità dell’area. E’ probabile dunque che il leader greco obbligherà a fare un salto di qualità alle relazioni internazionali tra paesi Ue, spostandole da un piano strettamente giuridico-burocratico – interpretazione ed attuazione dei trattati – a quello, forse più brutale, del negoziato politico esplicito. Si vedrà forse, dunque, finalmente, un po’ di politica europea: negoziati aperti tra paesi sulle scelte comuni, con relative problematiche di gestione del consenso elettorale, interno ai singoli paesi, e alla stessa Unione.

In conclusione, il dilemma  è sempre lo stesso dell’inizio della crisi finanziaria europea nel 2011: che si fa? Le strade sono due: o si procede verso un’unione politica, con mutualizzazione delle risorse e dei rischi, e magari anche con scelte di austerità, ma legittimate da un consenso popolare ‘europeo’ in cui greci, italiani e francesi mettono bocca nelle decisioni di portafoglio dei tedeschi, e viceversa, oppure ognuno per la sua strada di paese sovrano. Entrambe le strade sono legittime, ma non si può scegliere di non scegliere: il voto in Grecia dimostra che la ‘via di mezzo’ dei trattati e delle regole europee non può funzionare all’infinito. Starà ai singoli paesi chiedere conto ai loro elettori quale percorso intraprendere.

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gennaio 26, 2015 at 12:33 PM

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