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Archive for febbraio 2015

Se sdoganiamo l’antisemitismo, sdoganiamo la violenza come strumento politico

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Un post su Noisefromamerika propone un interessante dibattito tra due autori sui ‘doppi standard’ in termini di libertà di espressione assegnati alla satira antisemita e a quella sull’Islam, o il Cristianesimo. Il primo sostiene che vi sia un doppio standard, per cui la satira antisemita di matrice islamica viene censurata, contravvenendo dunque al principio universale della libertà di espressione, il secondo evidenzia invece che sì, censurare l’antisemitismo non è utile e forse è perfino ingiusto, ma che l’antisemitismo è un problema sociale concreto.

Ora, sull’argomento si può fare una considerazione piuttosto semplice, perfino ovvia, a partire dalla definizione di ‘satira antisemita’. Leggere bene, letteralmente, le parole utilizzate: l’aggettivo accanto a “satira”, è, appunto “antisemita”, derivato dal nome “antisemitismo” utilizzato fin nel titolo del post su NFA. Non c’è scritto, satira contro Jahvé o i personaggi della Bibbia, o satira contro i rabbini, ma proprio così: “satira antisemita”.

E’ forse utile ricordare che l’antisemitismo non è semplicemente un’opinione, ma qualcosa di molto simile a un programma politico ben preciso, con una sua storia, i suoi teorici, i suoi leader carismatici e esecutori materiali. Un programma che ha come obiettivo l’emarginazione degli ebrei dalla società, la loro umiliazione fisica e psicologica e e la loro eliminazione. Nella sua ultima versione, ha trovato un terreno assai fertile nella cultura islamista, specie quella delle periferie europee. Dunque, se prendiamo alla lettera le parole ‘satira antisemita’, esse significano nientemeno che: utilizzo di mezzi scherzosi per perseguire obiettivi (politici) come l’emarginazione e l’umiliazione violenta degli ebrei.

Esiste una satira ebraica, che scherza su dogmi e aspetti di quella cultura, così come altre forme di presa in giro  hanno come bersagli il Cattolicesimo o l’Islam, e i loro establishment clericali.  Queste forme di scherzo, pur se talvolta molto offensive, non implicano obiettivi di eliminazione di queste religioni e di chi le pratica. La satira ‘antisemita’ invece è appunto ‘antisemita’: è caratterizzata, per definizione, dal messaggio dell’eliminazione degli ebrei.

La discussione sulla libertà di espressione suscitata dall’attentato a Charlie Hebdo appare un bel po’ surreale. Quell’episodio non ha messo in luce un problema di mancanza di libertà di espressione – che in Francia e in Occidente è garantita, e negarlo è ridicolo – ma  ha evidenziato una questione grave: l’emergere, nelle società europee, di gruppi culturali che ritengono la violenza e l’uccisione di persone strumenti politici leciti per affermare i  loro valori. Gruppi che forse, un giorno, riscuoteranno consenso e otterranno legittimamente potere. Non è il caso di mettere in galera chi usa battute e vignette per fare loro marketing politico, ma sostenere che contrastarli almeno a parole è un atto di intolleranza, appare un esercizio intellettuale quantomeno discutibile. Sdoganiamo pure “il tabù dell’antisemitismo”, ma allora sdoganiamo anche qualsiasi altra ideologia, che ammette tra i popri mezzi politici la violenza che so, sui gay, le donne, i neri, su chiunque, con relative ‘satire’.  @leopoldopapi

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febbraio 25, 2015 at 1:52 PM

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Le tre opzioni di Varoufakis: inferno sovrano, inferno commissariato, o provare a spuntare un’Europa più unita

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Scrive l’economista Alberto Bisin, commentando un editoriale sul New York Times del ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis:

I teorici dei giochi chiamano questa situazione inconsistenza temporale (Varoufakis lo sa certamente): avere risorse e tempo senza vincoli porterebbe il Paese a continuare per la strada intrapresa da anni ormai, cioè quella di non affrontare le riforme necessarie alla crescita, nell’attesa irresponsabile di aiuti esterni che permettano di evitarle.

Non c’è dubbio che la ricetta di Syriza per la Grecia sia una minestra a base di spesa pubblica e redistribuzione, di riproposizione delle scelte che hanno portato il paese sul baratro. Che lo hanno condotto ad avere un debito enorme, e un’economia fragilissima e in larga misura improduttiva. Bisogna sempre aver ben chiaro che le condizioni di miseria in cui si sono ritrovati i cittadini greci da qualche anno a questa parte, sono l’inevitabile riaggiustamento degli sprechi passati, e non sono colpa della troika, né del liberismo, né di nessuno.

Tuttavia è forse utile provare a ‘vestire i panni’ di Varoufakis, in questi giorni di difficile negoziato politico con le istituzioni europee e col Fmi, e valutare le sue opzioni:

  • Sottomettersi al memorandum della troika, pur ottenendo qualche beneficio (dilazioni programmi, più flessibilità, ecc.). Lo stato greco avrebbe un po’ di ossigeno, ma non vi sarebbero probabilmente benefici immediati e concreti delle condizioni di vita dei cittadini greci. Varoufakis tradirebbe il mandato degli elettori, che forse, si rivolgerebbero a forze politiche ancora più radicali, come i nazisti di Alba dorata. I Greci sono indolenti e sprovveduti? Forse, ma votano. E finché lo fanno occorre prenderne atto, anche nelle assemblee di Bruxelles.
  • Grexit: uscire dall’euro (in un modo o nell’altro), con tutti i disastri che comporta in termini di svalutazione, di collasso del sistema finanziario, di isolamento sui mercati internazionali,  e di distruzione definitiva di quel che resta del tessuto economico greco produttivo (i famosi produttori di yogurt). I greci non avrebbero verosimilmente di che mangiare, per la debolezza del sistema produttivo interno, e per l’impossibilità a comprare all’estero prendendo a prestito.

Come si può constatare, entrambe le alternative hanno conseguenze pesantissime per i greci, e per le loro vite individuali. E’ vero che, se verranno applicate le prescrizioni della troika, e si creeranno le condizioni di legalità, garanzia dei diritti di proprietà e le appropriate liberalizzazioni, in qualche anno ‘la mano invisibile’ farà forse il suo dovere, riportando il paese alla prosperità. Ma è difficile credere che succederà: molto più probabile che i greci si avvitino molto prima in una spirale di populismi beceri e di terremoti istituzionali che non permetteranno mai alle forze del mercato di dispiegarsi, passando da una padella socialisteggiante à la Tsipras, a una brace nazionalisteggiante stile, appunto, Alba dorata.

E’ plausibile ritenere che Varoufakis, al di la delle retoriche folkloristiche del suo partito, abbia chiara  questa situazione, e agisca valutandone semplicemente costi e benefici politici. Comunque vada, per i greci sarà durissimo, e dunque, perché non puntare sull’azzardo totale? Di fatto l’obiettivo di Syriza – anche se oggi si chiuderà un accordo, il problema si ripresenterà tra qualche mese, e dunque l’obiettivo rimarrà valido – è costringere i paesi dell’euro a mutualizzare il debito greco, avviando sostanzialmente un processo di cessione di sovranità e di integrazione politica. D’altronde, è lo stesso Varoufakis ha dichiararlo, se pur nel linguaggio metaforico ‘vendoliano’ proprio della sua area politica.

Tutta la questione è trovare nuovi moventi. Scoprire un nuovo approccio mentale che vada oltre le divisioni nazionali, dissolva la distinzione tra debitori e creditori favorendo una prospettiva pan-europea e metta il bene comune degli europei al di sopra delle politiche-feticcio e dei dogmi che si sono dimostrati tossici se applicati in modo universale”.

A quale altro ‘nuovo movente’ può alludere il ministro greco, se non quello di una politica economica comune, ‘una prospettiva pan-europea’? La questione è tutta politica, dal suo punto di vista, e passa per il superamento dell’attuale “simulazione” di unione politica e fiscale prevista dai trattati, per arrivare a una qualche forma di condivisione dei debiti e di cessione di sovranità dei paesi euro. Sul piano economico, una integrazione europea relegherebbe forse definitivamente la Grecia alla condizione di arretratezza propria delle aree che vivono di assistenzialismo, un po’ come avviene per il Mezzogiorno italiano, ma tant’è almeno si tira a campare a spese dei virtuosi del Nord, e al riparo dai famigerati ‘mercati’.

‘When in trouble, go big’, recita il proverbio. Cercare di ‘salvare la Grecia’ puntando a generare un processo di integrazione politica europea, può essere un delirio fantapolitico, ma se le alternative sono tra un inferno commissariato dalla troika, o un inferno sovrano fuori dall’euro, perché non provare?

@leopoldopapi

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febbraio 17, 2015 at 5:07 PM

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La Grecia, l’euro, la legge ferrea del populismo

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Dentro o fuori dall’euro, la Grecia non sembra avere molte opportunità di riprendersi dalla crisi in cui si trova. L’uscita dall’euro sarebbe una catastrofe per i greci, che già in questi giorni stanno correndo a mettere in salvo i loro risparmi, temendo di ritrovarseli convertiti in inutili dracme. Il sistema finanziario del paese collasserebbe, e così la sua credibilità sui mercati internazionali. Non avrebbe modo di finanziarsi all’estero, e sarebbe incapace di sopravvivere grazie alle sue attività produttive, che sono assai fragili e che subirebbero probabilmente il colpo di grazia. Forse la Grecia ripartirebbe dopo qualche anno, ma pagando costi sociali insostenibili.

Purtroppo un Paese non è un’impresa, che può fallire ed essere sostituita da altre efficienti. Il meccanismo di ‘distruzione creativa’ di schumpeteriana memoria si inceppa a causa dell’interferenza della politica e dei capricci del voto democratico: la distruzione di inefficienze, necessaria per una ripartenza ‘spontanea’ dell’economia greca, basata su mercato e concorrenza – che, come insegnano gli economisti liberali, sono forse gli unici processi che danno prospettive solide di crescita e benessere sul lungo termine – nel breve termine crea un disagio tale da incentivare i consensi alle forze più populiste.

In Grecia ha vinto Syriza, ma potrebbero ottenere il governo forze ancora più radicali. Le quali, invece di creare il contesto per la ripresa consegnerebbero il paese a una condizione di caos e povertà strutturale, a furia di programmi statalisti ‘chavisti’ o ‘nazionalisti’ di redistribuzione, a seconda del segno politico. E’ bene ricordare che il prossimo sulla lista d’attesa dei tabelloni elettorali greci è il partito nazista Alba Dorata, pronto a subentrare casomai dovesse fallire Tsipras. Ed è facile immaginare che le sue ricette economiche non saranno poi troppo diverse dalle minestre di Syriza, di Marine Le Pen, del M5s o del Podemos spagnolo.

D’altronde, le riforme imposte dalla Troika a garanzia dei prestiti, hanno avuto un simile esito politico. Anche in questo caso, i saggi precetti liberali che le hanno ispirate – create le condizioni per la concorrenza, la tutela dei diritti e della proprietà privata, la solidità istituzionale, e vedrete che rinasceranno nuove attività economiche, ricchezza e prosperità verranno – si sono scontrati con la dura realtà del voto. E’ possibile che qualche greco apprezzi le virtù di un periodo di ‘austerity’ per liberarsi di abitudini culturali votate allo spreco e ai corporativismi, ma è probabile che questa consapevolezza diventi sempre meno accettabile per tutti i cittadini con il dispiegarsi degli effetti di queste ricette, subiti a livello individuale e familiare, in termini di contrazione del reddito, perdita di benefici e privilegi. D’altronde, si dice, “il debito non l’hanno fatto i greci”, ma la loro classe politica.

La legge ferrea della democrazia, per cui i politici al governo possono prendere decisioni a loro beneficio personale (o di gruppi organizzati a cui fanno riferimento) esternalizzando i costi sulla collettività ignara, all’inverso può trasformarsi in una sorta di legge ferrea del populismo: se gli effetti immediati di riforme decise da un gruppo organizzato volte all’efficienza, i cui benefici non ci sono ancora, e sono attesi anzi solo in un futuro indeterminato (è impossibile sapere cosa ci riserverà lo sviluppo del mercato), diventano troppo pesanti sulla vita dell’individuo o degli elettori, questi voteranno per un gruppo politico che promette con proclami roboanti – leggi appunto, populisti – la fine rapida e sicura delle loro sofferenze.

Dunque, per la Grecia c’è, sembra, ben poco da fare. Tutte i percorsi per ritrovare la prosperità economica implicano lamenti e stridore di denti: sia quella del ‘Grexit’ che quella della Troika. Non è colpa né della Troika né dell’euro né del liberismo, né di nessuno, ma del fatto che la disintossicazione di un’economia devastata da decenni di sbronze di spesa pubblica gestita per organizzare consenso politico senza produrre nulla è un processo doloroso. Il cui esito non è affatto scontato: può darsi che l’economia riparta, ma anche che muoia,  si avvii verso l’inaridimento definitivo. Ma in tutti i casi, le misure necessarie per la ripartenza tendono a essere ostacolate dalle sirene della politica, e dall’intervento, più o meno inevitabile, della legge del populismo.

Una ‘terza via’ per la Grecia in fondo c’è, ed è quella che, a ben guardare, Tsipras e il suo gagliardo economista Varoufakis sembrano avviati a percorrere  (quanto deliberatamente, quanto per spirito folle d’azzardo, è difficile dirlo). E’ quella dell’integrazione politica europea, mutualizzando debiti e scaricando sugli altri paesi dell’unione monetaria i costi dei propri sprechi passati. Qui sta, forse, la posta in gioco del ‘salvataggio’ della Grecia di Tsipras: innescherebbe un processo di condivisione del debito, il che comporterebbe garanzie comuni, per gestire le quali inevitabilmente si arriverebbe a una riduzione delle sovranità nazionali (tedesca, francese, italiana ecc.) in favore di una maggior sovranità europea. L’alternativa, per forza di cose, rischia di essere la dissoluzione dell’euro e dell’Unione europea, con tutti i suoi complicati meccanismi per ‘simulare’ un’unione fiscale e politica, pur salvaguardando le rispettive sovranità.

La Grecia in un’Europa politicamente integrata rimarrebbe quello che è, un’area depressa e arretrata, forse condannata a tirare a campare dell’assistenzialismo di una comunità politica più grande e ricca. Ci sarebbero le lamentele di chi paga, e le lamentele di chi non riceve abbastanza ma tutto sommato sarebbe una tranquilla routine, senza scossoni. Per noi italiani sarebbe una situazione familiare. D’altronde non si è mai sentito parlare di una crisi del debito sovrano, che so, campano.

@leopoldopapi

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febbraio 10, 2015 at 5:43 PM

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