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Il vicolo cieco ideologico del Movimento 5 stelle

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Il risultato delle elezioni europee per il Movimento 5 stelle non sarebbe troppo penalizzante, se non fosse il Movimento 5 stelle. Infatti, pur avendo subito una netta sconfitta rispetto al Pd, la forza politica di Grillo rimane il secondo partito, con un capitale solido di voti, intorno al 21,5% e con un distacco considerevole rispetto a FI e alle altre forze politiche. Per un altro partito sarebbe una brutta sconfitta elettorale, ma non una tragedia: vi sarebbe comunque una base elettorale solida da cui ripartire. Per i grillini invece è un esito che mette in discussione il senso profondo di tutta l’iniziativa, ed è forse utile provare a comprenderne le ragioni.

Il Movimento 5 stelle, a differenza degli altri partiti, presenta una caratteristica ideologica che, se è stata un tratto capace di aggregare consenso, rende ogni scelta ‘tattica’ (ad esempio aperture parlamentari su provvedimenti), ed ogni verifica elettorale  un  test sui presupposti stessi della propria esistenza. È l’idea della ‘democrazia diretta’, secondo cui il Movimento non rappresenta un elettorato, del quale esprime le esigenze e i valori particolari, ma incarna genericamente  il volere collettivo dei ‘cittadini’, intesi come un unicum collettivo e astratto. Non è una teoria nuova, ma piuttosto una rivisitazione spicciola delle vecchie elucubrazioni di Rousseau sulla volontà popolare,  pur riproposte nei codici e nelle liturgie tecnologiche della ‘democrazia liquida’ e della partecipazione attiva della Rete, inventate da Casaleggio.

Dato questo presupposto ideologico, gli attivisti e i politici del Movimento 5 stelle, sono obbligati, loro malgrado, per coerenza, a non riconoscere la legittimità  degli altri partiti. Per una forza che rivendica il ruolo di unica e autentica espressione della volontà popolare, infatti, non vi è ragione che ne esistano altre alternative. Per definizione, queste non rappresentano i cittadini, ma entità a loro estranee, che inevitabilmente minacciano la società civile, il bene comune, per soddisfare loro interessi. I partiti, nella narrativa grillina, diventano così facciate politiche di non meglio precisati e minacciosi ‘poteri forti’, che perseguono oscuri disegni criminali di dominio a danno dei cittadini inermi: le banche, le multinazionali, il FMI, i massoni, il Gruppo Bilderberg, la mafia.

Il gioco democratico, fatto di concorrenza tra diverse proposte politiche, nella logica della “democrazia a 5 stelle” è dunque inutile, e perfino dannoso.  E proprio per questa sua cifra assolutistica,  nell’orizzonte ideologico del Movimento, una sconfitta netta nella competizione elettorale rappresenta un esito paradossale, un “impossibilità teorica”. Come può, chi afferma di essere “cittadino portavoce”, venire bocciato dalla cittadinanza stessa?  Laddove per un altro partito, un risultato elettorale, anche molto negativo non implica la messa in discussione  del complesso dei propri valori, nel caso del grillismo diviene dunque una falsificazione dei fondamenti stessi della propria identità.

Non sorprende ora che Beppe Grillo, nel suo  primo commento dopo il risultato delle urne, se la prenda con gli elettori, “generazioni di pensionati che forse non hanno voglia di cambiare” e “preferiscono stare così”. Non è la solita battuta del comico populista, ma una considerazione imposta dalla gabbia ideologica in cui si è rinchiuso con le sue mani. A sbagliare non può essere stato il movimento depositario della Verità civile, devono per forza essere stati i cittadini, “illusi”, “irretiti”, “manipolati” dalla Casta, o troppo vecchi e conservatori, e incapaci di comprendere la verità rivelata dai meet up e dal blog di Grillo e Casaleggio.

Il Movimento 5 stelle dovrà, per forza di cose, se vuole sopravvivere politicamente, trovare una via di uscita dal vicolo cieco ideologico in cui si è cacciato. I prezzi da pagare per gli attivisti del movimento sono due. Il primo è concreto: la costruzione di un vero progetto politico, con valori e obiettivi dichiarati. Il secondo è più traumatico: rinunciare al ruolo di ‘portavoce’ unici depositari del Popolo sovrano, e accettare di essere cittadini qualsiasi che fanno politica, come ce ne sono tanti. @leopoldopapi

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Maggio 26, 2014 at 7:39 PM

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Su questa storia del rischio in politica

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Ha detto ieri Matteo Renzi nel discorso in direzione Pd, con cui ha chiesto di andare al governo:

“Chi fa politica ha il dovere di rischiare in alcuni momenti. Vale anche per me”

Rischiare significa, di solito, sacrificare qualcosa di immediatamente disponibile sul breve termine, per ottenere qualcosa di ancora non esistente sul lungo termine, e che potrebbe anche non esistere mai. Il giocatore d’azzardo che sceglie di rilanciare alzando la posta, rinuncia a chiamarsi fuori dal gioco e portare a casa quanto già vinto, per cercare di ottenere qualcosa in più. Potrebbe anche riuscirci, ma potrebbe anche perdere tutto. L’imprenditore che rischia i propri risparmi in un investimento, rinuncia alla possibilità di utilizzarli per altre attività, o per il suo benessere immediato, scommettendo di avere ritorni tali dall’attività, da aumentare il patrimonio. Il rischio, anche in questo caso, se l’investimento si rivela sbagliato, è la perdita del capitale investito.

Renzi rivendica spregiudicatezza e propensione al rischio come tratto del suo stile di leadership politica, ma la sua manovra per prendersi Palazzo Chigi, non è granché conforme alla definizione di cui sopra. Sembra piuttosto rivelare, al contrario, un reale timore di non riuscire ad occupare la poltrona di capo del governo. I suoi discorsi in Direzione, al netto dei toni arroganti con cui sono stati pronunciati, hanno risuonato con forza nelle orecchie di chi confidava in una sua effettiva capacità di visione politica, come un artificioso e anche un po’ maldestro tentativo retorico per giustificare la scelta di prendersi subito il giocattolone esecutivo.

Nei fatti, però, rischiare sarebbe stata un’altra cosa. Sarebbe stato investire il capitale di consensi ottenuto con le primarie sulla scommessa elettorale, anche eventualmente, con il proporzionale attualmente in vigore. Non c’è dubbio che questo comporta la possibilità di perdere, anche clamorosamente. Ma la posta in caso di vittoria sarebbe stata premiante e duplice: la riscossione di consensi tali da avere una maggioranza solida per fare riforme incisive, e da conferire al segretario Pd sufficiente indipendenza d’azione da scardinare o mettere in seria crisi i sistemi di clientele consolidate che fanno riferimento al suo partito e alle correnti interne: banche, cooperative, sindacati, magistratura.

Guardare al tornaconto personale immediato sacrificando le prospettive di lungo periodo, è una delle patologie congenite al mestiere della politica, specie in Italia. Nel bulimico, arbitrario e bizantino sistema di rendite pubbliche e private clientelari qual è il nostro Stato e la nostra economia, l’interesse individuale del politico che è chiamato a gestirlo confligge inevitabilmente con quello generale di mettere in campo riforme per scardinarlo. Ma non esistono pranzi gratis, come dicono gli economisti, neanche per chi fa politica.

Il prezzo da pagare per il sindaco rottamatore per aver espropriato la poltrona di Enrico Letta, e per non aver rischiato la ricerca di una vera legittimazione popolare, è stato probabilmente nella rottamazione in pochi minuti di una notevole parte della propria credibilità. Ed è tanto più sorprendente, in quanto si trattava di una credibilità costruita ‘sapendo perdere’ e scommettendo sulla coerenza di lungo periodo, di fronte agli elettori.

Difficile ora che Renzi, con un esecutivo debole a maggioranze variabili, riesca ad attuare le riforme che proclama di voler fare. Verosimilmente non potrà fare altro che ripetere la prassi consolidata della tradizione politica repubblicana, pur in una veste comunicativa rinnovata: distribuire un po’ di posizioni, occupare spazi di potere nominando i ‘suoi’ negli organi istituzionali, ai vertici di società pubbliche, nel territorio grigio dell’economia parastatale. Ma al di là di queste operazioni di continuità, di lui rimarrà probabilmente il ricordo di un’occasione persa per l’Italia, e del primo leader capace di tradire clamorosamente, in diretta streaming, le aspettative di elettori che non l’hanno mai eletto.

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febbraio 14, 2014 at 10:29 am

L’elettorato orfano e la ‘rivoluzione liberale’

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A Milano vince Pisapia, a Napoli straripa DeMagistris. Cosa è successo, e cosa succederà? Fare predizioni equivale a fare scommesse. Tuttavia qualche diagnosi azzardata, sul risultato di questa tornata elettorale per due centri così delicati, così decisivi per gli equilibri nazionali, viene voglia di tentarla. Senza volersi abbandonare a proclami escatologici sulla ‘fine del berlusconismo’ appare evidente che il voto di Milano (Napoli è forse un caso a parte, una singolarità che merita altre riflessioni) rappresenta una decisiva sconfitta politica per il premier e il suo partito.

Marco Travaglio ironizza sul fatto che ad assestare il colpo sia stato un esponente della sinistra radicale, aderente proprio a quegli orientamenti politici che Berlusconi ha sempre demonizzato. Ancora più ironico è forse il fatto che a riuscire nell’impresa sia stato un avvocato, Pisapia,  acceso sostenitore di idee ‘garantiste’ e della necessità di una riforma della giustizia (è co-autore, tra l’altro, insieme al magistrato Carlo Nordio di un bel libro, “In attesa di giustizia”, forse l’unico uscito di recente dove si tratta dei problemi del potere giudiziario in modo ragionevole) laddove non ci erano riusciti per anni i fautori di posizioni più ‘giustizialiste’. Lo stesso Pisapia prende le distanze da questi atteggiamenti, quando dichiara (com’è avvenuto oggi al Messaggero) di aver sempre sostenuto “che Berlusconi si combatte con la buona politica, e non ci si può aspettare che il lavoro lo facciano i processi. Ecco, abbiamo dimostrato che è possibile, ed è la strada giusta”. Leggi il seguito di questo post »

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Maggio 31, 2011 at 2:59 PM