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il pluralismo delle rendite (giornalistiche)

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Scrive Luca Sofri:

In Italia non c’è e non c’è mai stato dal fascismo in poi un problema di pluralismo dell’informazione. Meno che mai ai tempi di internet. C’è da tempo, e ogni giorno di più, un ignorato problema di qualità dell’informazione: perché riempiendo il dibattito di allarmi sul pluralismo – un termine scelto sapientemente per legittimare il senso di qualunque tipo di informazione, anche la più scadente e inaffidabile – chi fa i giornali, chi li difende, ordine professionale e associazioni sindacali, organizzazioni in difesa di, e infine lettori stessi, hanno rimosso completamente il tema della qualità.

Ma i temi della qualità e del ‘pluralismo’ in Italia non sono mica separati. Bisogna intendersi sul significato concreto del termine pluralismo. ‘Difesa del pluralismo’ ha significato per anni, e significa ancora, nel concreto, erogazione di sovvenzioni pubbliche all’editoria, sotto varie forme. Ora, quando ci sono i sussidi – elementare considerazione economica – la produttività delle imprese,  quella ricerca incessante di qualità e competitività del prodotto che chi sta sul mercato senza protezioni è costretto a fare, pena fallimento,  tende a crollare a tassi inversamente proporzionali a quelli di crescita del sussidio.

Questo vale per qualsiasi settore, ma ha effetti particolarmente deleteri sul giornalismo. Infatti, com’è noto, il comparto è in crisi. Una crisi che si può riassumere con un semplice ragionamento contabile: nel contesto italiano (ma in generale, dappertutto, causa internet) di oggi, per uno spropositato eccesso di offerta sulla domanda, il ‘prezzo reale’ di mercato di un servizio giornalistico è bassissimo, a fronte di costi altissimi.Una differenza che, a occhio, è qualcosa tipo 1 euro  di ricavi a fronte di 10 di costi, per qualsiasi contenuto, dal take d’agenzia al servizio fotogiornalistico di alta qualità realizzato dal bravissimo freelance di turno a sue spese.

La sproporzione tra prezzo a cui effettivamente si riesce a vendere una notizia o contenuto giornalistico – a tutti i livelli, dal freelance al grande editore – e i costi di produzione è aggravata in Italia dai costi fissi di pertinenza di una classe di professionisti che rivendica più tutele e benefici di altre. Oltre al solito cuneo fiscale e contributivo e ai compensi aggiuntivi previsti per il lavoro dipendente (tredicesima, quattordicesima, tfr ecc.), le retribuzioni per i giornalisti assunti infatti prevedono minimi tabellari obbligatori molto alti, contributi Casagit, e garanzie di ogni tipo, che ne rendono impossibile il licenziamento, o anche solo lo spostamento di ruolo, con conseguenti gravi costi ulteriori di riorganizzazione interna.

Il risultato è inevitabile: le imprese editoriali, inchiodate per legge a questi costi, non hanno modo di cambiare per riaggiustarsi al mutato – radicalmente, giacché la crisi del giornalismo è strutturale, con internette – contesto del mercato. Mutato contesto che è tutto codificato nei prezzi correnti, bassissimi, delle notizie. Ora qual è il problema? Il problema è che il giornalismo italiano, in questo contesto, sopravvive in larga misura appunto grazie a sussidi pubblici. Che tendono a essere assorbiti tutti per pagare gli stipendi al club degli articoli 1 del contratto nazionale di lavoro giornalistico.

Un club, quello degli articoli 1 dei giornali, fatto in larga misura – non tutti, non è il caso di generalizzare, ma tanti sì – da gente che non lavora. Da signori con un’altissima opinione di sé, che fanno male o malissimo il loro dovere – quella roba lì che costa un sacco di fatica e sbattimento: cercare notizie – e considera i suoi rari e scadenti (e strapagati) prodotti, gentili concessioni ai lettori delle verità rivelate ai loro intelletti superiori. Che considerano dunque i soldi che ricevono sotto forma di stipendio, la dovuta tutela dell’esistenza di cotanto valore intellettuale per la nazione, che guai a ridurlo a una mera questione di paga per prestazione lavorativa. Il pluralismo “è”, e non può essere ridotto a una volgare questione di soldi.

Ecco dunque il nesso tra scarsa qualità del giornalismo italiano e ‘tutela del pluralismo’. Lo si può riassumere in tre parole: conservazione di rendite. Lo si può descrivere come un circolo vizioso per cui la qualità del giornalismo è scadente, il mercato dell’editoria non si riprende perché il giornalismo fa schifo,  ma il pluralismo non si tocca, i giornalisti non si toccano, le aziende non possono cambiare, ridurre costi ripensarsi per aumentare la produttività e intercettare la domanda reale di informazione, quindi vanno mantenute a furia di soldi pubblici, per i quali la produttività dei giornali crolla, determinando i degrado della qualità dei contenuti, che non può sopravvivere senza sussidi, e via dicendo.

Provassimo a togliere tutti, ma proprio tutti i sussidi all’editoria, e anche le gabbie giuridiche che rendono difficile, se non impossibile alle aziende editoriali reinventarsi per far fronte al ‘nuovo mondo’, che ormai tanto nuovo non è più, di internet.  Fallimenti a catena. Vecchi tromboni tutelati e garantiti che si stracciano le vesti per aver perso il lavoro, per non poter più annoiare le orecchie del pubblico con le loro ‘opinioni’. Disperazione di editori e sindacati e precari zucconi, incapaci di capire che i loro interessi sono opposti a quelli di quei tutelati a cui aspiravano di appartenere.

Chiuderebbero chissà quante testate. Schiere di giovani smetterebbero di illudersi – magari aizzati dalle scuole di giornalismo – di diventare i nuovi Montanelli o Travaglio, e si darebbero ad altro. Ma poi, forse, inizierebbero a nascere e affermarsi realtà nuove, che rischiano in prima linea le loro risorse, e sono perciò costrette a capire, per poter sopravvivere e guadagnare, cos’è e come funziona davvero oggi il mercato dell’informazione. Imprese con meno giornalisti, ma con più notizie e contenuti, i cui costi sono più proporzionati ai prezzi che la scarsità di domanda e l’eccesso d’offerta impongono. Imprese che funzionano in base alla logica di dare un servizio al pubblico, non per dare lavoro ad aspiranti maître à penser.

Nascerebbe forse insomma un pluralismo spontaneo, vero, in cui gli editori e i giornalisti guadagnano in modo adeguato per quel che fanno, senza privilegi o, se il pubblico non ne riconosce la qualità o l’utilità, chiudono.  Di certo, non un pluralismo all’italiana, foglia di fico morale sotto alla quale si celano sontuose rendite pubbliche garantite a tanti professionisti della fuffa intellettuale.

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ottobre 27, 2014 at 2:20 PM

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A che servono le imprese?

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Riforma del lavoro liberista non troppo cattiva: le imprese assumono e licenziano liberamente, secondo necessità, salvo motivi assurdi, come la discriminazione razziale o sessuale, lo stato tutela i lavoratori che vengono licenziati, e fornisce loro strumenti formativi per reinserirsi nel mercato, imponendo a tutti di accettare il primo impiego disponibile, anche ai più schizzinosi.

Motivazione della riforma liberista: l’economia è una faccenda dinamica, di attività produttive che cambiano a seconda delle mutate esigenze degli individui e quindi della scarsità relativa dei beni. Per questa ragione, alcune attività che prima avevano successo diventano obsolete o costose, altre si affermano e fanno fortuna.

L’impresa dunque, è un’entità che, per sopravvivere e crescere, deve potersi adattare, e talvolta reinventare, per far fronte ai cambiamenti. Ha vari modi per farlo, ma sono tutti, nessuno escluso, vincolati dall’equilibrio di bilancio: quanto patrimonio, quanti debiti, quante entrate e quante uscite. I modi sono: aumentare la produttività,attraverso investimenti e riduzioni delle inefficienze, e investendo in prodotti innovativi con cui creare o conquistare nuovi mercati.

In tutto questo processo rientra ciò che si definisce ‘lavoro’: la partecipazione di persone all’impresa. Persone che formano il know how, l’esperienza nella capacità di risolvere problemi (che all’inizio sembrano tali, col tempo diventano routine), portano idee, in breve fanno funzionare i processi produttivi.

Non è vero che esiste una manodopera non qualificata: anche nelle attività più banali,  tipo fare le pulizie, ci sono i lavoratori che un’azienda si tiene stretti, perché più bravi, efficienti, affidabili, responsabili. Esiste il lavoro utile e quello inutile, questo sì, e nessuna impresa può permettersi lavoro inutile.

Per questa, e questa sola, ragione, le imprese devono poter licenziare: per adattarsi ai cambiamenti del contesto in cui operano. Laddove tutti gli investimenti possibili, permessi dai numeri del bilancio, che potessero permettere razionalizzazioni della forza lavoro e delle competenze siano già stati fatti, eliminare lavoro inutile diventa l’unica opzione possibile per sopravvivere e crescere in un contesto mutato.

Eppure la libertà di licenziamento è, per esempio nella cultura sindacale, e in particolare quella della Cgil, che in questi giorni si scontra col governo, considerata fonte di ingiustizia sociale. Questa tradizione, almeno così sembra, si fonda sull’idea che scopo di un’attività economica è produrre lavoro e non beni.

“Il lavoro è un diritto”, invece che un dovere, o una necessità per evitare di vivere di rendita sulle spalle di qualcuno. Ciò che sorprende è che i suoi fautori sembrano non aver il coraggio di trarne le conclusioni logiche. Perché, ad esempio, è considerato ingiusto che le imprese licenzino, ma non che non assumano? Se il lavoro è lo scopo, un’azienda che non assume non adempie al proprio ‘ruolo sociale’, esattamente come quella che licenzia. Obbligare a non licenziare significa entrare nel merito delle decisioni sul risparmio privato per ragioni etiche, cosa che si omette di fare – chissà perché – nel caso dell’ingresso nelle attività di impresa.

Ma la conclusione logica più estrema dell’idea dell’economia ‘per il lavoro’ è: a che servono le imprese? Perché se lo scopo dell’economia è dare lavoro, e non produrre beni e servizi, allora questi enti sono solo ‘mali sociali’, per definizione inadatti al fine, perché incapaci di assumere tutti i cittadini, se non quelli strettamente necessari a perseguire i loro interessi privati. Ai fini del dare lavoro le imprese sono solo fastidiosi ‘corpi sociali intermedi’ tra stato e cittadino, che di fatto ostacolano, con i loro interessi particolari, la piena occupazione. E allora, cara Camusso, perché non abolirle? Perché spendere così tante energie nel cercare di tutelare il lavoro dalle prepotenze degli imprenditori, quando si potrebbe scegliere la via molto più semplice e efficiente di espropriare il risparmio privato e statalizzare tutto? Facciamo come a Cuba o in Venezuela, lo stato assuma tutti i cittadini, e non parliamone più.

Eppure chi ‘odia gli imprenditori’, o meglio, chi come la Cgil, li considera soggetti per loro natura inclini a sfruttare le persone, e che quindi lo stato deve controllare, educare, guidare, punire, e anche sostenere, quasi che fossero disadattati pericolosi, non trae queste conclusioni, si limita a protestare in piazza se i vincoli statali all’impresa vengono parzialmente ridotti. E a strumentalizzare incidenti per difendere le sue prerogative e i suoi poteri.

Written by trial & error

ottobre 24, 2014 at 9:12 am

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