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Non c’è alcun disegno

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di Amineh Pakravan*

Non c’è alcun disegno nel disordine totale nella società globale di oggi, nella sua politica, nella sua economia, nel pensiero dei singoli. Il disordine è un bagno vischioso e ci stiamo affondando tutti. Ci indebolisce sempre più.

C’è ormai una specie di anarchia selvaggia da tutte le parti che nessuno è in grado di governare, uno scioglimento delle intenzioni nella sregolatezza. Tutto ciò non parte da una volontà ma da una negazione della volontà a tutti i livelli.

Non è un fatto banale e senza conseguenza. Persino la natura, così ben organizzata da sempre, anche nei suoi piani prestabiliti e nei suoi incidenti di percorso, ne risente: ll ninio impazzito, la siccità dichiarata della California e di certe zone dell’Africa, i ghiacci che si sciolgono a vista d’occhio nelle calotte polari – e tutto quanto non certo secondo tempi millenari.

Il mondo che abbiamo creato è di una complessità enorme e ciò lo rende molto fragile. La sua fragilità è insita nel fatto che non è più in grado di riconoscere se stesso. E fugge sempre in avanti. Non è cosciente e non rende conto dell’enormità faustiana di ciò che sta creando. Nelle cose piccole come in quelle grandi, tanto ha perso il senso delle proporzioni. La conquista dell’impossibile ha reso possibile l’impossibile, ma ha reso altrettanto invivibile il mondo perché irriconoscibile.

Il mondo è diventato bi-polare, come lo diventano gli individui quando si ammalano mentalmente. Il buio contro la luce. Chissà chi vincerà questo conflitto che lo affligge o forse non ci sarà alcun vincente.

L’immaginazione, quando mancavano altri strumenti – oggi si chiamano tecnologici – ha consentito di superare i limiti con il senso critico, agli scienziati, ai filosofi, agli artisti, ai letterati, ai singoli individui nelle loro umiltà. Ha prodotto risultati incommensurabili nella loro qualità. Oggi la tecnologia – passo dopo passo inesorabile – supera l’immaginazione, la avvolge nella molteplicità delle sue soluzioni, senza offrire il minimo spazio al senso critico, alla possibilità dell’errore che smentisca la conquista.

Fermarsi un attimo. Riflettere sulla possibilità dell’errore, avere qualche dubbia sull’infallibilità che sembra così infallibile. No? No. Non ci saranno flagellanti per allontanare la peste, questa volta, perché il pericolo non è conosciuto. (A.P.)

*Amineh Pakravan è autrice de “Il libraio di Amsterdam” (Marsilio, 2006)

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febbraio 3, 2016 at 3:07 PM

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Giornalismo, corporazione senza innovazione

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C’è davvero un motivo per parlare di ‘schiavitù dei giornalisti’, come fa il presidente dell’ordine dei giornalisti Enzo Iacopino? La risposta è no. Descrivere la situazione di molti giovani precari italiani in termini di ‘sfruttamento da parte dei padroni’, è propaganda a buon mercato per un’istituzione – l’ordine dei giornalisti – che in realtà concorre a generare il precariato italiano, proteggendo uno status quo corporativo in cui editori, sindacati, e gli stessi giornalisti non precari sono solidali nel mantenere i loro privilegi.

Questo status quo è economicamente insostenibile, altamente inefficiente e dannoso per la qualità dell’informazione. Nel giornalismo italiano, più che in altri paesi, le rendite corporative impediscono l’operare di quel meccanismo, per dirla con Schumpeter, di ‘distruzione creativa’, necessario in ogni settore per far si che vecchie imprese si riorganizzino, e nuove imprese  (private/pubbliche, non è poi rilevante) emergano, adattandosi a mutamenti di mercato e tecnologia,  così da sostituire quelle ormai non più competitive, il cui mantenimento in operatività (inclusi i posti di lavoro) finisce per essere sempre, in qualche modo, un costo per la collettività.

L’avvento di internet ha determinato in tutto il mondo, un mutamento profondo nell’economia del giornalismo. Capirne le ragioni è semplice, è una questione di conti del ragioniere: il rapporto tra costi di produzione di un qualsiasi contenuto giornalistico e i ricavi che esso può generare – laddove un tempo era facilmente ripagato dalla vendita delle copie dei giornali e dalla pubblicità – è diventato insostenibile,  a spanne qualcosa come 3-4-5 a 1 se va bene.

Ma laddove in altri Paesi – nel mondo anglosassone, ma anche in Germania o in Francia – l’editoria ha iniziato ad adattarsi al nuovo contesto – vecchie imprese e modelli editoriali si estinguono, e vengono sostituiti da nuove realtà capaci di produrre ricavi a costi sostenibili, in Italia ciò non avviene, salvo casi sporadici. A impedirlo due fattori: la natura politica e parapolitica dell’editoria italiana da un lato, il carattere sindacale-corporativo e autoreferenziale della categoria dei giornalisti dall’altro.

I costi dell’attività giornalistica ‘legale’, molto più che altrove, in Italia sono insostenibili. E’ il segreto di Pulcinella: il contratto di assunzione prevede costi minimi lato azienda di 4mila euro al mese, che gli scatti di anzianità portano dopo pochi mesi a lievitare sopra i 5mila euro al mese. Posto che i ricavi, come detto, sono bassissimi, per la maggior parte delle aziende editoriali spese simili significano una cosa sola: portare i libri in tribunale.

I media più grandi – i grandi giornali, le grandi agenzie di stampa – riescono a mantenere strutture redazionali in perdita perché sono sussidiati, in senso lato, o da privati, in genere grandi portatori di interesse, disposti a ripianare (anche se con sempre maggior insofferenza) data l’influenza politica delle testate, o dal governo, in varie forme dirette o indirette.

Ma i sussidi, si sa – pubblici o privati che siano – sono incentivi sbagliati che fanno degradare l’efficienza e la qualità di una qualsiasi attività produttiva. Nel caso dei media, essi distolgono i giornalisti e le aziende editoriali dall’obiettivo di realizzare prodotti giornalistici capaci di intercettare una domanda effettiva – e dunque fare buona informazione – e li incentivano invece a diventare ottimi comunicatori dediti a promuovere le cause del padrone o del decisore pubblico di turno.

Non c’è da stupirsi se poi ci ritroviamo con una classe giornalistica italiana ‘ufficiale’ con i connotati di una casta di individui pigri, arroganti e superficiali e inoltre intoccabili, perché tutelati da una delle istituzioni corporative più agguerrite in Italia – l’ordine dei giornalisti – e da un sindacato durissimo. Toccarli  è come toccare i preti: si viene accusati istantaneamente di fare “attentato” alla libertà di stampa, o al pluralismo dell’informazione.

Le aziende d’altronde hanno scarso interesse a fare lavorare sul serio i propri giornalisti: da un lato rischiano solo di scontrarsi con le istituzioni corporative, senza raggiungere l’obiettivo di liberarsi dei fannulloni. Dall’altro, sono comunque al riparo dai rigori concorrenziali del mercato: perché mai crearsi delle noie coi cdr o le teste calde di redazione, quando dopotutto, non è così urgente ridurre le perdite?

I giornali, in ogni caso, qualche notizia la devono pur dare, che i dipendenti sussidiati sempre meno sono in grado di trovare. Ecco allora che entrano in scena i precari: legioni di giovani volenterosi e di talento, disposti anche a lavorare gratis o quasi pur di vedere la loro firma su questo o quel grande giornale. Per molti editori il precariato è così una risorsa produttiva importante, per far fronte alle enormi inefficienze interne connesse al mantenimento dello status quo corporativo.

Per chi invece non riceve sussidi o non ha soci disposti a sovvenzionare le perdite per interesse politico – come molte nuove testate, potenzialmente più dinamiche e di qualità – assumere giornalisti è quasi impossibile, per via dei costi legali del lavoro. Molte aziende sarebbero disposte ad assumere giovani giornalisti a condizioni economiche dignitose (se pur al disotto del ‘minimo tabellare’ di 2mila euro mensili) che molti giovani sarebbero entusiasti di accettare, ma questo non è possibile, perché “il contratto nazionale non si tocca”, e toccarlo significherebbe “darla vinta ai padroni”. Avvalersi di freelance, precari, gratuitamente o a cifre irrisorie è per queste realtà l’unica alternativa alla chiusura.

Il giornalismo italiano è una grande rendita. Aziende bollite, incapaci di sostenersi grazie all’informazione che producono, tenute in vita con i soldi pubblici o parapubblici di privati, mantengono giornalisti spesso incapaci assunti per raccomandazione ai costi fuori mercato imposti dal contratto nazionale di lavoro. Ne consegue un circolo vizioso: l’informazione corporativa e di scarsa qualità deprime ancora di più il valore economico dei contenuti, rendendo l’intero settore editoriale ancor più fallimentare. I lettori non sono stupidi, e “won’t buy the bullshit” dei media italiani, ai quali non resta così, per pagare i propri costosissimi produttori di contenuti, che cercarsi un finanziatore politico o parapolitico.

E’ questa rendita corporativa, di cui beneficiano editori, giornalisti, istituzioni inutili e autoreferenziali come l’odg a impedire il rinnovamento. I precari sottopagati non sono schiavi ma aspiranti professionisti a cui le opportunità di emergere sono negate da barriere corporative, e che purtuttavia ‘resistono’ autofinanziandosi e lavorando per cifre irrisorie.

La liberalizzazione del lavoro giornalistico, la possibilità per le aziende di riorganizzarsi internamente, senza incorrere in veti corporativi, l’abolizione dell’ordine, il taglio di ogni sussidio, queste sì, sarebbero le misure necessarie per avviare un effettivo rinnovamento e risanamento del settore. E non preoccupatevi, le aziende o falliranno o troveranno da sé il modo per innovare senza aiuto, perché sarà nel loro interesse e non avranno altra scelta. Tuttavia, la corporazione fa di tutto perché evitare che questo accada: significherebbe smantellare la corporazione sussidiata che ora si piange addosso incolpando internet o i social network o la legge di gravità della crisi del giornalismo, per distogliere l’attenzione dalle proprie responsabilità.

@leopoldopapi

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gennaio 5, 2016 at 1:06 PM

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Che cosa ha fatto Eni con Report

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Ci sono molti commenti, anche autorevoli, sulla vicenda delle risposte di Eni in diretta  Twitter, sulla puntata di Report di domenica scorsa.  C’è anche chi, nel mondo degli esperti di comunicazione e social media, parla di ‘rivoluzione’ nel modo di fare ufficio stampa e comunicazione aziendale.

Sembrano però valutazioni marginali, rispetto a ciò che è effettivamente accaduto. Eni e il suo direttore comunicazione Marco Bardazzi hanno introdotto il contraddittorio in un programma giornalistico a tesi, spacciato per programma di inchieste.

Colta di sorpresa, Milena Gabanelli ha reagito con il solito riflesso condizionato, sottolineando di aver invitato Eni a dire la sua nella preparazione del programma. Così facendo ha però solo evidenziato la propria indisponibilità a sostenere un contraddittorio imparziale, e cioè in diretta, davanti alla ‘giuria’ dei telespettatori, e dove non può ‘controllare’ in postproduzione gli interlocutori. Twitter ha offerto invece all’Eni un campo neutro dove poter imbastire una vera e propria difesa e smentire le insinuazioni del programma. Un surrogato social di contraddittorio, ma sempre meglio di niente.

La verità oggettiva esiste, ma, come sanno bene gli scienziati e gli avvocati, è il risultato di un esame costante delle evidenze disponibili in un contesto di regole pubbliche e imparziali. Gli scienziati fanno esperimenti replicabili da chiunque, cercando di creare condizioni di laboratorio il più possibile neutre; nei processi giudiziari dei paesi civili, la costruzione delle prove deve per definizione avvenire in aula pubblica, attraverso il confronto di accusa e difesa in contraddittorio e in presenza di un giudice terzo.

La questione dunque non è stare dalla parte di Eni o di Report. Il caso di domenica scorsa ha evidenziato la pratica squallida di costruire teoremi accusatori non circostanziati assemblando in postproduzione spezzoni di documenti e interviste funzionali alla tesi. Una pratica simile sarebbe considerata disonesta e non credibile in ambito scientifico o giudiziario. Non c’è motivo per cui lo stesso non debba avvenire nel giornalismo, che condivide con quei due ambiti la ricerca della verità, se pur per lo scopo diverso di fare informazione.

Non è vero che nel giornalismo il contraddittorio non si può fare: si può eccome, specie in quello televisivo, mettendo a confronto i teoremi di inchiesta con le eventuali argomentazioni e prove difensive di fronte a milioni di telespettatori. Il problema è che la credibilità di Report e del suo “giornalismo di inchiesta” potrebbe uscirne con le ossa rotte.

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dicembre 17, 2015 at 7:25 am

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Cosa gliene viene alla Russia

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A distanza di tre mesi, è difficile decifrare gli obiettivi di Vladimir Putin con l’intervento in Siria, e con la rottura con la Turchia. Tuttavia, le sue scelte hanno due effetti oggettivi: da un lato aumentano l’influenza russa nello scenario del Medio oriente, dall’altro indeboliscono la Nato, evidenziandone ed aggravandone le contraddizioni interne.

A prescindere dalle intenzioni, Putin potrebbe ottenere da un lato una crisi irreversibile tra i paesi Nato, la quale si sfalderebbe di fronte alla possibilità di un confronto militare aperto con la Russia – magari per difendere gli interessi della Turchia – dall’altro rafforzare la sua posizione internazionale in Medio oriente e nel Mediterraneo. Fino a che punto possa raggiungere questi risultati è difficile dire. Di certo la Russia non è in militarmente né economicamente in grado di sostenere un confronto con la Nato: ha un Pil simile a quello dell’Italia, pro capite molto minore.

D’altronde è nello ‘stile’ di Putin avere un approccio graduale alla politica internazionale, basato su potenziali risultati pragmatici, piuttosto che guidato da principi assoluti e a obiettivi astratti. Lo si è visto nella crisi della Crimea e in quella Ucraina: Putin ha puntato a massimizzare i risultati in termini di allargamento e influenza territoriale e indebolimento dell’Ue e dell’Alleanza atlantica, fermandosi appena in tempo per evitare conseguenze drammatiche. Anche in quel caso, più che su la sua scarsa forza  ha potuto far leva sulle contraddizioni e debolezze dei suoi avversari. @leopoldopapi

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dicembre 7, 2015 at 3:31 PM

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Scontro di civiltà, ma anche no

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Dopo gli attentati a Parigi del 13 novembre si è riaccesa la polemica sullo ‘scontro di civiltà’ tra Occidente e Islam. Inevitabilmente queste categorie astratte generano dispute sulle definizioni: quali siano i veri valori dell’Occidente, cosa sia il vero Islam. Da un lato c’è chi tira in ballo le ‘radici cristiane’ e chi cita Oriana Fallaci, dall’altro si moltiplicano i distinguo Corano alla mano, e le prese di distanza più o meno convinte e convincenti di esponenti mussulmani dalle violenze terroristiche. E così, come avviene nelle disquisizioni teologiche, si finisce per avere tante interpretazioni quanti sono i loro proponenti.

Ho sempre pensato che questo approccio alla storia e agli eventi, basato su categorie collettive astratte (rigorosamente con l’iniziale maiuscola), come le ‘Civiltà’, l’Occidente, l’Islam o altro, fosse risibile e infondato, e destinato a generare enormi equivoci tra coloro che una volta venivano chiamati intellettuali (oggi magari si chiamano ‘influencer’), potenzialmente pericolosi se adottati come ideali a guida delle decisioni politiche concrete. D’altronde questi concetti non sono nati dal nulla: nel digitalissimo 2015 ci troviamo a rispolverare, spesso inconsapevolmente, armamentari concettuali inventati più di un secolo fa dai grandi teorici dello storicismo: Spengler, Toynbee, che nei loro affascinanti affreschi storici pretendevano di aver isolato ‘scientificamente’ i valori autentici di questa o quella civiltà e la loro evoluzione.

Proviamo a fare un’affermazione radicale: le ‘civiltà’ non esistono, come non esiste nessun ente collettivo sovraindividuale, storico, antropologico, economico e via dicendo. Ci sono invece, in concreto, istituzioni politiche territoriali – gli stati – fattori culturali condivisi – la lingua, la religione, le tradizioni letterarie o artigiane, o gastronomiche o popolari – che sono in continuo cambiamento e contaminazione. Ci sono poi, ovviamente, gli individui.

Quelle che con grande solennità chiamiamo ‘civiltà’, più prosaicamente sono soggetti politici che si differenziano per il maggiore o minor grado di libertà personale che ammettono: da quella economica (proprietà privata, libertà di impresa e di scambio) a quella di espressione, a quelle più quotidiane, come il vestirsi secondo le proprie preferenze o il mangiare e bere ciò che si crede. Un grado di libertà del genere, è ammesso, ad oggi, nei circa 200 stati nel mondo, secondo una scala che a un estremo trova le ‘società aperte’ dei paesi occidentali (ma anche tra questi, ci sono molte differenze) all’Iran, alla Somalia e alla Corea del nord. In questa scala l’Occidente non c’entra granché: tra i paesi che ammettono e tutelano la libertà, per esempio, c’è senz’altro il Giappone.

Alcune ideologie totalizzanti vogliono abolire completamente le libertà individuali e sostituirle con regolamenti obbligatori, e con la sottomissione incondizionata all’autorità politica che li ha istituiti. Nella storia ce ne sono state per tutti i gusti e a tutte le latitudini: dalle piccole comunità tribali organizzate secondo quale culto in qualche isola sperduta, alle sette cristiane, al nazismo, al comunismo, alle caste indù. L’Islam salafita, o anche le altre versioni dell’islam, sunnita wahabita, o sciita su cui si fonda il regime iraniano, possono forse non avere finalità terroristiche, ma certamente sono di queste: odia le libertà individuali, e le vorrebbe sopprimere istituendo la sharia.

Gli attentati di Parigi, così come tutti gli altri gesti efferati compiuti dai terroristi islamisti altrove, non sono sintomo di alcuno ‘scontro di civilità’ o tra Occidente e Islam. Sono l’ennesimo deliberato attacco alla libertà di tutti quanti – cristiani, mussulmani, atei o adoratori di entità aliene –  da parte di una nuova ideologia totalitaria e sanguinaria di matrice religiosa. Il problema non è se questa versione dell’Islam sia ‘autentica’ o meno secondo dottrina – cose da teologi – ma se questa o qualunque altra versione dell’Islam o di altra religione, possa abbandonare queste sue aspirazioni totalitarie ed essere compatibile con una società plurale. @leopoldopapi

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novembre 27, 2015 at 3:51 PM

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Landini, o della sinistra timida

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Obiettivo della ‘coalizione sociale’, lanciata dal capo della Fiom Maurizio Landini è, come lui stesso ha affermato oggi da Lucia Annunziata, “riunificare il mondo del lavoro”.

Che cosa voglia intendere con queste dichiarazioni vaghe è difficile capirlo. L’impressione è che il sindacalista-politico (giacché a suo dire il sindacato è un soggetto che deve fare politica) si mantenga, almeno per ora, un po’ nell’indeterminatezza, e non si capisce perché. Da uno che, nelle aspettative di molti, dovrebbe rifondare la sinistra e costruire un nuovo messaggio politico genuinamente di sinistra, ci si aspetterebbe qualcosa di più: proposte e progetti chiari.

D’altronde, non è difficile immaginare quali dovrebbero essere. Landini, come nella grande tradizione della sinistra, considera il ‘lavoro’ lo scopo delle attività economiche e della società. Non produrre beni o servizi, ma proprio questa cosa quì: creare e garantire ‘lavoro’. Ovvero, assegnare agli individui delle mansioni, in cambio delle quali occorre che ricevano una paga equa, senza diseguaglianze.  Ora, il problema, per l’uomo di sinistra, è che le imprese private spesso non lo fanno, perché sono guidate a suo avviso da un altro fine assai iniquo e in contrasto con quello del dar lavoro: il profitto, l’aumento dei ritorni di capitale investito, riducendo al massimo i costi sostenuti per l’attività, e quindi anche gli stipendi e le tutele per i lavoratori.

Per l’uomo genuinamente di sinistra gli imprenditori sono insomma inevitabilmente dei soggetti pericolosi e dannosi per la società, perché tendono a sfruttare gli altri per arricchirsi, e per massimizzare i propri benefici personali. Sì, ci sono casi di ‘imprese illuminate’ dove i capitalisti mostrano sensibilità sociale e solidarietà verso i più deboli, ma si tratta di casi individuali isolati, e anche questi comunque non sfuggono alla logica egoistica del profitto, non fanno cioè impresa solo per dare lavoro, se non hanno almeno un minimo ritorno economico.

Da uno che si propone di rifondare la sinistra e la società come Landini, ci si aspetterebbe dunque, prima di tutto una proposta radicale: abolire le imprese e riportare la creazione e la gestione del lavoro in capo allo Stato, democraticamente eletto dai Lavoratori. Perché, c’è da chiedersi fuor di polemica, se si considera che le imprese sono le realtà nocive che impediscono il dispiegarsi di una società in cui c’è la piena ed equa occupazione, non andare dritti al punto e sopprimerle? Non sarebbe tutto più semplice? Non ci si sentirebbe tutti più garantiti a sapere che il nostro lavoro non dipende più da questi egoisti intermediari sociali che sono le imprese, ma dallo Stato garante dell’interesse collettivo?

Sarebbe un bel programma di sinistra: coerente, dichiarato, spavaldo. Sarebbe il comunismo, diciamocelo. Invece no: Landini, e in generale gli amici di sinistra si affannano in denunce appassionate sui ‘diritti che vengono calpestati’ sulla ‘colpa del liberismo’ sul ‘capitalismo che genera diseguaglianze’, ma sul fronte delle ricette da mettere in campo tentennano, si impappinano. Parlano di redditi minimi o di cittadinanza, di tutele dei lavoratori contro gli sfruttatori, ma non fanno mai il grande passo di portare alle logiche conseguenze il loro pensiero, e costruire un progetto politico che apertamente punti a eliminare alla radice ‘la causa’ di tutti i mali sociali.

A sinistra forse si soffre di timidezza, e Landini, almeno dalle sue prime esternazioni ‘da politico’ non sembra esserne immune: ci si interroga morettianamente su cosa è di sinistra, ci si gira intorno, ci si commuove alle tavolate delle feste solidali, ma poi quando si passa alle proposte si ha timore delle conseguenze del proprio pensiero. Oppure si ha consapevolezza che le proprie ricette sono assurdità, ma a proporle ci si sente più buoni, e magari si prende qualche voto e ci si costruisce pure sopra una piccola carriera politica.

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marzo 15, 2015 at 6:33 PM

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Se sdoganiamo l’antisemitismo, sdoganiamo la violenza come strumento politico

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Un post su Noisefromamerika propone un interessante dibattito tra due autori sui ‘doppi standard’ in termini di libertà di espressione assegnati alla satira antisemita e a quella sull’Islam, o il Cristianesimo. Il primo sostiene che vi sia un doppio standard, per cui la satira antisemita di matrice islamica viene censurata, contravvenendo dunque al principio universale della libertà di espressione, il secondo evidenzia invece che sì, censurare l’antisemitismo non è utile e forse è perfino ingiusto, ma che l’antisemitismo è un problema sociale concreto.

Ora, sull’argomento si può fare una considerazione piuttosto semplice, perfino ovvia, a partire dalla definizione di ‘satira antisemita’. Leggere bene, letteralmente, le parole utilizzate: l’aggettivo accanto a “satira”, è, appunto “antisemita”, derivato dal nome “antisemitismo” utilizzato fin nel titolo del post su NFA. Non c’è scritto, satira contro Jahvé o i personaggi della Bibbia, o satira contro i rabbini, ma proprio così: “satira antisemita”.

E’ forse utile ricordare che l’antisemitismo non è semplicemente un’opinione, ma qualcosa di molto simile a un programma politico ben preciso, con una sua storia, i suoi teorici, i suoi leader carismatici e esecutori materiali. Un programma che ha come obiettivo l’emarginazione degli ebrei dalla società, la loro umiliazione fisica e psicologica e e la loro eliminazione. Nella sua ultima versione, ha trovato un terreno assai fertile nella cultura islamista, specie quella delle periferie europee. Dunque, se prendiamo alla lettera le parole ‘satira antisemita’, esse significano nientemeno che: utilizzo di mezzi scherzosi per perseguire obiettivi (politici) come l’emarginazione e l’umiliazione violenta degli ebrei.

Esiste una satira ebraica, che scherza su dogmi e aspetti di quella cultura, così come altre forme di presa in giro  hanno come bersagli il Cattolicesimo o l’Islam, e i loro establishment clericali.  Queste forme di scherzo, pur se talvolta molto offensive, non implicano obiettivi di eliminazione di queste religioni e di chi le pratica. La satira ‘antisemita’ invece è appunto ‘antisemita’: è caratterizzata, per definizione, dal messaggio dell’eliminazione degli ebrei.

La discussione sulla libertà di espressione suscitata dall’attentato a Charlie Hebdo appare un bel po’ surreale. Quell’episodio non ha messo in luce un problema di mancanza di libertà di espressione – che in Francia e in Occidente è garantita, e negarlo è ridicolo – ma  ha evidenziato una questione grave: l’emergere, nelle società europee, di gruppi culturali che ritengono la violenza e l’uccisione di persone strumenti politici leciti per affermare i  loro valori. Gruppi che forse, un giorno, riscuoteranno consenso e otterranno legittimamente potere. Non è il caso di mettere in galera chi usa battute e vignette per fare loro marketing politico, ma sostenere che contrastarli almeno a parole è un atto di intolleranza, appare un esercizio intellettuale quantomeno discutibile. Sdoganiamo pure “il tabù dell’antisemitismo”, ma allora sdoganiamo anche qualsiasi altra ideologia, che ammette tra i popri mezzi politici la violenza che so, sui gay, le donne, i neri, su chiunque, con relative ‘satire’.  @leopoldopapi

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febbraio 25, 2015 at 1:52 PM

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Cosa si intende quando si dice ‘difendere la libertà’

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E’ un tema centrale, su cui si litiga molto, scambiandosi reciproche accuse di ipocrisia, perché ognuno considera la libertà sacrosanta finché non offende le sue convinzioni, interessi o sentimenti. Non appena succede però, iniziano i distinguo, le ambiguità e le polemiche.

La libertà, di solito, viene intesa come una astratta nozione positiva: libertà di fare, di dire, di agire e in generale di scegliere arbitrariamente. I paradossi che ne conseguono sono evidenti e si manifestano immediati, perché nel concreto desideri, opinioni e intenzioni di persone diverse entrano in conflitto, sempre.  Tale libertà assoluta, che forse esiste in un qualche inconoscibile empireo platonico, nella dimensione della convivenza, dove le scelte personali sono inevitabili, non è praticabile: prima o poi i desideri e i bisogni miei entrano in contrasto con i tuoi, o quelli di qualcun altro.

Constatando evidentemente questa incresciosa situazione, qualcuno ha avuto l’idea – la storia di chi l’ha messa a punto è lunga, e lasciamola agli accademici: si va da Socrate a Hume, Montesquieu, Hayek, per dare qualche riferimento sommario – di rinunciare ad aspirare alla ‘libertà positiva assoluta’, e porsi l’obiettivo più modesto realistico di provare a garantire una libertà “negativa”: far sì cioè che, attraverso alcuni espedienti istituzionali – per esempio: affidare allo stato il monopolio della violenza; assoggettare il potere di chi governa ai limiti dello stato di diritto, rendere possibile cacciare con il voto e senza sangue i governanti – nessun individuo o fazione possa prendere il sopravvento sugli altri, e tutti in questo contesto possano perseguire i propri fini, senza che gli altri ci mettano il naso.

Quando due uomini sterminano a colpi di AK-47 alcuni loro simili perché ridicolizzano le loro convinzioni, puntano proprio a sovvertire questa condizione. Incidentalmente, i due killer di Charlie Hebdo vorrebbero obbligare tutti a sottomettersi alle regole della sharia, ma vi sono stati tanti casi, nella storia, di ‘fazioni’ che hanno tentato di imporre le loro regole, dai fanatici cristiani, ai totalitari di vario colore del novecento.

“Difendere la libertà” significa dunque proteggere il complesso sistema di salvaguardie legali e istituzionali che riducono la possibilità che qualcuno acquisti troppo potere su gli altri. E’ una faccenda molto pragmatica: infatti questa condizione è altrettanto artificiale quanto lo è un ponte, o un impianto medico per respirare: come quelli, richiede manutenzione continua alle sue strutture e meccanismi per metterla al riparo da forze che potrebbero distruggerla.

Vi sono ideologie che ritengono detestabile questa forma di convivenza basata sul riconoscimento della parzialità di scopi e di credenze, e vorrebbero rimpiazzarla con altre più disciplinate secondo i loro dogmi, religiosi o magari laici (in ogni caso indiscutibili). Ridicolizzare queste idee e i loro fautori, contrastarli, reagire anche con durezza e cinismo alle loro iniziative non è ipocrita, è necessario per evitare che prendano il sopravvento.

@leopoldopapi

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gennaio 14, 2015 at 9:11 PM

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Solo i musulmani possono sconfiggere l’integralismo

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Oggi Emma Bonino, intervistata da La Stampa, a una domanda sulla necessità di una reazione interna al mondo musulmano all’integralismo, ha risposto:

Non c’è dubbio che la reazione del mondo musulmano è fondamentale. Sinora è sempre mancata, ed è molto più difficile che si manifesti nei paesi islamici, forse perché, non avendo diritti di cittadinanza, i cittadini di qui Paesi non si rendono ben conto che gli attentati terroristici in Occidente hanno proprio i musulmani come obiettivo finale. Perché i terroristi si propongono di distruggere anche la loro, di civiltà. Se potessimo guardare anche all’attentato terroristico a Charlie Hebdo con gli occhi di un egiziano, di un algerino, o più ancora di un siriano, vedremmo, o per meglio dire ci ricorderemmo che i terroristi da noi commettono gesti efferati ma esemplari, su obiettivi a forte carica simbolica, ma furi dall’Occidente uccidono musulmani a migliaia. E ogni giorno.

E ancora, Bonino:

Da noi, quando la reazione si è manifestata timidamente, come hanno fatto i giovani islamici scesi in piazza contro l’Is a Milano lo scorso settembre, non hanno trovato grande eco. Nessuno se li è filati, per dirla chiara. Né i media, ne la politica, ed erano comunque proteste numericamente esigue. Qui c’è una responsabilità nostra, molti di loro non vengono riconosciuti ne legalizzati, sentono solo che nei loro confronti c’è un ondata razzista.

Ecco il nocciolo della questione: finché non si affermerà, nel mondo islamico, un movimento di contestazione del fondamentalismo, non ci sarà modo di venirne a capo. Non è che nel mondo di musulmani moderati non ce ne siano, o che manchi la gente sana di mente che crede in Allah, ma il problema è la mancanza di un Islam moderato ‘ufficiale’, una tradizione giuridica e istituzionale laica, se pur rispettosa dei precetti di quella religione, che anteponga la libertà individuale e personale alle prescrizioni teologiche e teocratiche di questo o quel capo o guida religiosa. Un sistema di valori e istituzioni a cui il mondo musulmano – le persone in carne ed ossa, la gente comune – possa fare appello per delegittimare i fanatici. Un tale contesto non può che essere, appunto, il risultato politico, giuridico e istituzionale di una ribellione delle comunità mussulmane all’integralismo, in nome dell’autodeterminazione dell’individuo e delle sue prerogative.

In assenza di un contesto simile, il mondo islamico, per quanto vi siano persone di buona volontà, non riesce a isolare il fondamentalismo, a marginalizzarlo, e ridurlo a un fenomeno di folklore ideologico per disadattati. Inoltre,  neanche i paesi occidentali possono fare granché, salvo potenziare le misure di intelligence e sicurezza, o tentare di regolare meglio l’immigrazione. Per quanto si stringano le maglie, qualche pazzoide fanatico potrà tuttavia sempre svicolare, e combinare massacri come quello di Charlie Hebdo. E poi la posta in gioco è alta: si rischia di compromettere lo stato di diritto, e buttar via proprio i principi che si vuol difendere.

All’indomani della strage di Parigi molti musulmani prendono le distanze, esibiscono anche autentica indignazione per l’accaduto, ma ad ascoltarli si percepisce la loro stessa perplessità e incertezza nel rispondere efficacemente ai deliri sanguinari dei loro correligionari, salvo buttar lì qualche slogan sul “vero Islam che non è quello”, o cercare di testimoniare come – vero, probabilmente – in tante moschee, in tante comunità si lavori sodo per contrastare le posizioni estremiste.

La comparsa di valori che possano fondare una “società aperta” islamica, capace di marginalizzare il radicalismo, non può che essere un processo legittimato dal basso, attraverso un consenso volontario e condiviso della maggioranza dei musulmani. Anche per questa ragione, i non islamici hanno poca voce in capitolo – e anche per questo ci sentiamo così impotenti quando succedono gli attentati – anche se sarebbe bene, come afferma l’ex ministra, cercare di dare maggior visibilità e a valorizzare il più possibile i fenomeni di “contestazione interna” del fanatismo. Ma anche sotto questo aspetto le possibili iniziative concrete sono limitate: una simile reazione dovrebbe affermarsi prima di tutto nei paesi del Medio Oriente, laddove le milizie estremiste assassinano sistematicamente e per futili motivi i loro concittadini, lontano dalle opinioni pubbliche occidentali. Comunque, a proposito della nascita di un tale movimento anti fondamentalista nel mondo islamico c’è di che essere molto scettici: per ora sembrano riscuotere molto consenso tra gli islamici ideologie e progetti politici opposti, e lo stato islamico è solo l’esempio più celebre.

Sarebbe un bel segnale in questa direzione se, almeno tra i musulmani occidentali, che le libertà le conoscono e di esse beneficiano, vi fosse una sollevazione di protesta  contro i terroristi e i barbuti dispensatori di ‘sharie’ a base di violenze sulle donne, prevaricazioni arbitrarie e strepiti teologici. Qualche episodio c’è stato, qualche giovane musulmano che, schifato, è andato in piazza a manifestare il proprio disgusto si è visto, anche se insomma, sono casi ancora troppo rari.  E poi resta il dilemma di fondo che, c’è da scommetterci, tormenta ogni buon musulmano, anche il più moderato e pacifico: un Islam che rinuncia ad aspirare di ‘creare la ‘società giusta’ islamica, che separa una volta per tutte ciò che è di Cesare da ciò che è di Allah, può ancora dirsi tale?

@leopoldopapi

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gennaio 8, 2015 at 6:42 PM

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il pluralismo delle rendite (giornalistiche)

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Scrive Luca Sofri:

In Italia non c’è e non c’è mai stato dal fascismo in poi un problema di pluralismo dell’informazione. Meno che mai ai tempi di internet. C’è da tempo, e ogni giorno di più, un ignorato problema di qualità dell’informazione: perché riempiendo il dibattito di allarmi sul pluralismo – un termine scelto sapientemente per legittimare il senso di qualunque tipo di informazione, anche la più scadente e inaffidabile – chi fa i giornali, chi li difende, ordine professionale e associazioni sindacali, organizzazioni in difesa di, e infine lettori stessi, hanno rimosso completamente il tema della qualità.

Ma i temi della qualità e del ‘pluralismo’ in Italia non sono mica separati. Bisogna intendersi sul significato concreto del termine pluralismo. ‘Difesa del pluralismo’ ha significato per anni, e significa ancora, nel concreto, erogazione di sovvenzioni pubbliche all’editoria, sotto varie forme. Ora, quando ci sono i sussidi – elementare considerazione economica – la produttività delle imprese,  quella ricerca incessante di qualità e competitività del prodotto che chi sta sul mercato senza protezioni è costretto a fare, pena fallimento,  tende a crollare a tassi inversamente proporzionali a quelli di crescita del sussidio.

Questo vale per qualsiasi settore, ma ha effetti particolarmente deleteri sul giornalismo. Infatti, com’è noto, il comparto è in crisi. Una crisi che si può riassumere con un semplice ragionamento contabile: nel contesto italiano (ma in generale, dappertutto, causa internet) di oggi, per uno spropositato eccesso di offerta sulla domanda, il ‘prezzo reale’ di mercato di un servizio giornalistico è bassissimo, a fronte di costi altissimi.Una differenza che, a occhio, è qualcosa tipo 1 euro  di ricavi a fronte di 10 di costi, per qualsiasi contenuto, dal take d’agenzia al servizio fotogiornalistico di alta qualità realizzato dal bravissimo freelance di turno a sue spese.

La sproporzione tra prezzo a cui effettivamente si riesce a vendere una notizia o contenuto giornalistico – a tutti i livelli, dal freelance al grande editore – e i costi di produzione è aggravata in Italia dai costi fissi di pertinenza di una classe di professionisti che rivendica più tutele e benefici di altre. Oltre al solito cuneo fiscale e contributivo e ai compensi aggiuntivi previsti per il lavoro dipendente (tredicesima, quattordicesima, tfr ecc.), le retribuzioni per i giornalisti assunti infatti prevedono minimi tabellari obbligatori molto alti, contributi Casagit, e garanzie di ogni tipo, che ne rendono impossibile il licenziamento, o anche solo lo spostamento di ruolo, con conseguenti gravi costi ulteriori di riorganizzazione interna.

Il risultato è inevitabile: le imprese editoriali, inchiodate per legge a questi costi, non hanno modo di cambiare per riaggiustarsi al mutato – radicalmente, giacché la crisi del giornalismo è strutturale, con internette – contesto del mercato. Mutato contesto che è tutto codificato nei prezzi correnti, bassissimi, delle notizie. Ora qual è il problema? Il problema è che il giornalismo italiano, in questo contesto, sopravvive in larga misura appunto grazie a sussidi pubblici. Che tendono a essere assorbiti tutti per pagare gli stipendi al club degli articoli 1 del contratto nazionale di lavoro giornalistico.

Un club, quello degli articoli 1 dei giornali, fatto in larga misura – non tutti, non è il caso di generalizzare, ma tanti sì – da gente che non lavora. Da signori con un’altissima opinione di sé, che fanno male o malissimo il loro dovere – quella roba lì che costa un sacco di fatica e sbattimento: cercare notizie – e considera i suoi rari e scadenti (e strapagati) prodotti, gentili concessioni ai lettori delle verità rivelate ai loro intelletti superiori. Che considerano dunque i soldi che ricevono sotto forma di stipendio, la dovuta tutela dell’esistenza di cotanto valore intellettuale per la nazione, che guai a ridurlo a una mera questione di paga per prestazione lavorativa. Il pluralismo “è”, e non può essere ridotto a una volgare questione di soldi.

Ecco dunque il nesso tra scarsa qualità del giornalismo italiano e ‘tutela del pluralismo’. Lo si può riassumere in tre parole: conservazione di rendite. Lo si può descrivere come un circolo vizioso per cui la qualità del giornalismo è scadente, il mercato dell’editoria non si riprende perché il giornalismo fa schifo,  ma il pluralismo non si tocca, i giornalisti non si toccano, le aziende non possono cambiare, ridurre costi ripensarsi per aumentare la produttività e intercettare la domanda reale di informazione, quindi vanno mantenute a furia di soldi pubblici, per i quali la produttività dei giornali crolla, determinando i degrado della qualità dei contenuti, che non può sopravvivere senza sussidi, e via dicendo.

Provassimo a togliere tutti, ma proprio tutti i sussidi all’editoria, e anche le gabbie giuridiche che rendono difficile, se non impossibile alle aziende editoriali reinventarsi per far fronte al ‘nuovo mondo’, che ormai tanto nuovo non è più, di internet.  Fallimenti a catena. Vecchi tromboni tutelati e garantiti che si stracciano le vesti per aver perso il lavoro, per non poter più annoiare le orecchie del pubblico con le loro ‘opinioni’. Disperazione di editori e sindacati e precari zucconi, incapaci di capire che i loro interessi sono opposti a quelli di quei tutelati a cui aspiravano di appartenere.

Chiuderebbero chissà quante testate. Schiere di giovani smetterebbero di illudersi – magari aizzati dalle scuole di giornalismo – di diventare i nuovi Montanelli o Travaglio, e si darebbero ad altro. Ma poi, forse, inizierebbero a nascere e affermarsi realtà nuove, che rischiano in prima linea le loro risorse, e sono perciò costrette a capire, per poter sopravvivere e guadagnare, cos’è e come funziona davvero oggi il mercato dell’informazione. Imprese con meno giornalisti, ma con più notizie e contenuti, i cui costi sono più proporzionati ai prezzi che la scarsità di domanda e l’eccesso d’offerta impongono. Imprese che funzionano in base alla logica di dare un servizio al pubblico, non per dare lavoro ad aspiranti maître à penser.

Nascerebbe forse insomma un pluralismo spontaneo, vero, in cui gli editori e i giornalisti guadagnano in modo adeguato per quel che fanno, senza privilegi o, se il pubblico non ne riconosce la qualità o l’utilità, chiudono.  Di certo, non un pluralismo all’italiana, foglia di fico morale sotto alla quale si celano sontuose rendite pubbliche garantite a tanti professionisti della fuffa intellettuale.

Written by trial & error

ottobre 27, 2014 at 2:20 PM

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